Venerdì abbiamo appreso i nomi di ministri e ministeri del nuovo governo. Sono tante le novità a saltare all’occhio, ed è onestamente difficile capire quale sia la più agghiacciante.

Su un fatto in particolare vogliamo soffermarci: Il Ministero dell’Istruzione, affidato al ministro Giuseppe Valditara (che, citando Wikipedia, “Nel 2010 si distingue particolarmente nella stesura della Riforma Gelmini per l’università pubblica italiana”) cambia denominazione in Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Ma cosa vuol dire Merito?

Il concetto di merito è una variabile costante nel nostro sistema. Lo ritroviamo in qualsiasi regolamento, discorso, ragionamento sulla meritocrazia, premiazione delle eccellenze.

Il termine “meritocrazia”, però, nasce con un’accezione negativa, nel 1958, grazie al sociologo Michael Young e al suo romanzo distopico chiamato “The rise of the Meritocracy”, che parla di una società che promuove una selezione basata esclusivamente sulla misurazione precoce delle capacità, grazie alla quale diventa possibile calcolare il “merito” di ciascun individuo.

Ci sono dei casi in cui è possibile determinare più o meno univocamente chi è più in grado di svolgere un determinato compito, per cui scegliere la persona più “brava” è giustificabile (immaginiamo di dover scegliere chi mandare su una stazione spaziale, ad esempio).

La stortura arriva quando si comincia ad inserire la variabile del “merito” per discriminare chi o meno debba avere accesso a strumenti che di fatto sono diritti, come l’istruzione e l’università.

Da un lato fa notizia chi riesce a prendere più lauree contemporaneamente, e in anticipo, chi prende i voti più alti e chi entra ed esce dalle scuole di eccellenza. Dall’altro ci sono i numeri programmati (entra solo chi riesce a passare il test d’ingresso, quindi chi se lo “merita”); l’obbligo di tassare maggiormente chi va fuoricorso; le università stesse si ritrovano a fare a gara a chi performa meglio per ricevere più finanziamenti.

Il merito diventa sempre di più una chiave di lettura del mondo stesso, che ci spiega in modo molto semplice che chi “ce la fa” è meritevole ed è responsabile delle proprie vittorie, e come tale va ammiratə; di riflesso, chi “non ce la fa” non è meritevole, ed è responsabile delle proprie sconfitte.

Questo mito si basa su due presupposti di dubbia veridicità.

Il primo è il fatto che il merito sia sempre quantificabile, misurabile, classificabile, identificabile in modo univoco – è sempre possibile fare una classifica e capire chi sta sul podio. 

Il secondo è il fatto che la logica della competizione tra individui sia il meccanismo più efficiente per riconoscere e premiare i meriti di cui sopra. 

In questo sistema viene totalmente ignorata la variabile delle condizioni di partenza, che sono differenti per ogni individuo e nulla hanno a che vedere con le capacità della singola persona – in questo caso, anzi, la meritocrazia fa da cortina e nasconde tutti i privilegi e le possibilità che chi nasce in famiglie più abbienti ha fin dall’inizio, giustificando tutti questi vantaggi come semplice frutto del merito e capacità individuale.
L’ideologia del merito è una delle armi che la cultura egemone usa contro di noi, per separarci e renderci avversariз in competizione, per farci sentire addosso il peso di ogni nostro “fallimento”, normalizzare il fatto che siamo sempre solo noi il problema e non il mondo che ci sta intorno. Non è così. Queste stesse idee che ci circondano, ci influenzano e ci pervadono, come abbiamo visto, sono basate su fondamenta marce. Sta a noi rendercene conto, per far crollare tutto e poter finalmente ricostruire, insieme.